di Bhikkhu Anālayo
Quest’articolo presenta una prospettiva buddhista sulla sfida posta dal cambiamento climatico, con particolare enfasi sul ruolo della presenza mentale. Basandosi su brani di versioni parallele degli antichi testi buddhisti esistenti in pāli, sanscrito, cinese e tibetano, tre possibili reazioni al cambiamento climatico vengono messe in correlazione con i tre inquinanti radice riconosciuti nell’antica psicologia buddhista: avidità, rabbia e illusione. Riconoscerli richiede un’osservazione consapevole basata sull’intenzione compassionevole di non nuocere. Il nobile ottuplice sentiero stabilisce il contesto per la collaborazione di tale intenzione compassionevole con la coltivazione della presenza mentale. Secondo la similitudine dei due acrobati, proprio la coltivazione della presenza mentale genera le basi per stabilire dentro di sé l’equilibrio necessario per aiutare gli altri.
Il 2 maggio 2019 il parlamento del Regno Unito ha dichiarato l’emergenza climatica. Questa presa di posizione a livello governativo è un passo importante che indica una seria presa in considerazione dell’attuale crisi ecologica e climatica. La distruzione dell’ambiente e il cambiamento climatico hanno raggiunto dimensioni che, se trascurati, minacciano la sopravvivenza dell’umanità su questo pianeta. I possibili scenari futuri sono davvero devastanti: oceani che si acidificano e moria di pesci, estinzione della maggior parte delle specie animali, ampie aree di terra fertile trasformate in deserti, riduzione significativa delle scorte di acqua potabile, perdita di raccolti, migrazioni su larga scala e guerre di competizione per il calo di risorse generale. Questi scenari sono così terribili che si preferirebbe non pensarci. Tuttavia evitare di pensarci è un fattore che contribuisce alla crisi attuale. È necessario uno strumento per contrastare sia questa forma di fuga sia la resa allo “stress da catastrofe”, che tende a impedire una presa d’azione significativa. Come nota Tokar (2018, p. 182), “alcuni autori si concentrano sugli scenari futuri più tragici sperando che la gente sia così scossa da rendersi conto dell’ordine di grandezza dei cambiamenti necessari, ma questo approccio sembra ispiri più disperazione e rimozione che azioni significative”.
In questo contesto la presenza mentale può fornirci un’indispensabile soluzione. Può divenire uno strumento fondamentale per affrontare il terrore con equilibrio interiore e, su questa base, intraprendere i passi necessari per trasformare quella che potrebbe essere la maggiore sfida che il genere umano ha mai affrontato nella propria storia. Con la presenza mentale questa sfida può trasformarsi in un’opportunità per accrescere la consapevolezza globale e per un cambiamento verso un livello di interazione tra esseri umani che dia la precedenza al bene comune, piuttosto che al profitto individuale, allo scopo di mantenere le condizioni di vita necessarie per la sopravvivenza della civiltà umana.
Declino morale e ambiente
I testi del buddhismo antico, che approssimativamente rispecchiano il periodo tra il quinto e il terzo secolo a.C. (Anālayo 2012), ravvisano la possibilità di un serio deterioramento delle condizioni ambientali sulla terra.Il passo più rilevante descrive come una cattiva amministrazione politica e un graduale declino morale tra la popolazione influisce sull’ambiente, le cui condizioni così deterioratesi conducono a loro volta a un ancor maggiore peggioramento degli standard morali.Il discorso esiste in pāli (DN 26) e nei due paralleli cinesi (DĀ 6 e MĀ 70) che differiscono nei dettagli con i quali descrivono l’impatto del declino morale sull’ambiente.Il passo tradotto più sotto si basa su un estratto da una delle versioni in cinese ed è particolarmente adeguato alla crisi attuale.Le parti rilevanti descrivono un tempo non meglio specificato nel futuro dove verrà raggiunto un basso livello di comportamenti morali e di condizioni di vita:
In quel tempo nel mondo non si sentiranno più nominare il ghi, il miele di fiori selvatici o qualunque altra dolce prelibatezza. I semi e le piantine di riso si trasformeranno in erba e infestanti... in quel tempo sulla terra cresceranno abbondanti cespugli spinosi e vi saranno molte zanzare, tafani, mosche, pulci, serpenti, vipere, vespe, millepiedi e vermi velenosi... sulla superfice della terra si vedranno solo rocce argillose, sabbia e ghiaia... in quel tempo gli esseri [umani] saranno capaci di particolare malvagità e non vi sarà pietà filiale verso i genitori, rispetto per gli insegnanti e gli anziani, non vi sarà lealtà né correttezza. Coloro che saranno indisciplinati e senza principi saranno stimati... vedendosi l’un l’altro gli esseri [umani] vorranno continuamente uccidersi a vicenda, come dei cacciatori alla vista di una mandria di cervi. Allora su questa terra vi saranno molte voragini, profonde gole dove i fiumi scorreranno veloci. La terra sarà un deserto. Gli esseri umani saranno scarsi. Le persone spaventate. In quel tempo vi saranno combattimenti e razzie.
(DĀ 6: 是時世間酥油, 石蜜, 黑石蜜, 諸甘美味 不復聞名, 粳 粮, 禾稻變成草莠 ... 是時此地多 生荊棘, 蚊, 虻, 蠅, 虱, 蛇, 蚖, 蜂, 蛆, 毒蟲眾多 ... 唯有瓦石砂礫出於地上 ... 是時眾 生能為 極惡, 不孝父母, 不敬師長, 不忠, 不義. 反逆無 道者更得尊敬 ... 眾生相見, 常欲相殺, 猶如獵 師見於群鹿. 時此土地多有溝坑, 溪 深谷. 土 曠, 人希, 行人恐懼. 爾時當有刀兵劫起; adot‐ tando le varianti 唯 invece di 遂, 反 invece di 返, 更 invece di 便, e 人 invece di 來).
Le similitudini tra questa descrizione e i potenziali scenari conseguenti al cambiamento climatico sono sorprendenti.Quello che nell’antica regione indiana era visto come un lontano futuro, da una prospettiva contemporanea sembra vicino, quasi imminente.
Gli altri due testi paralleli sono decisamente meno dettagliati, quindi l’estratto tradotto qui sopra è specifico di questo particolare discorso. Ciò rende la sua descrizione pertinente esclusivamente a una singola linea di discendenza della trasmissione testuale, piuttosto che rappresentare una posizione condivisa, nel contesto del “buddhismo antico”, sui dettagli delle ripercussioni da aspettarsi per un declino morale. Per fornire la prospettiva del buddhismo antico su un particolare insegnamento è necessario identificare del materiale comune alle diverse linee di discendenza della trasmissione testuale. Nel resto di questo articolo la maggior parte dei passaggi saranno presi da versioni parallele diverse e confrontati per accertare in quale grado emerge un messaggio comune.
Benché diversi a livello di dettagli forniti nelle loro descrizioni, il discorso di cui sopra e i suoi due paralleli concordano sugli aspetti generali della loro presentazione. Concordano anche nell’indicare che da un cambiamento in meglio delle attitudini mentali e della condotta morale della popolazione, risulta un miglioramento generale. Questo miglioramento a livello personale influisce sull’ambiente che gradualmente si riprende da una condizione di desolazione. In tutte e tre le versioni, l’intera descrizione funge da parabola e non dovrebbe quindi essere presa troppo letteralmente. Ciò nonostante, il messaggio di base che vuole trasmettere è inteso seriamente e per questa ragione è particolarmente adatto alla situazione contemporanea.
Etica della mente
L’attuale crisi ecologica ha richiamato l’attenzione anche dei leader buddhisti contemporanei. Il Karmapa (2013, p. 87) ad esempio offre la seguente valutazione:
Una cosa che necessita della massima attenzione è il trattamento che riserviamo al nostro ambiente naturale. Proteggere l’ambiente dal quale tutti dipendiamo per la sopravvivenza è il modo immediato di prendersi cura di tutti gli esseri viventi. Abbiamo visto che la cultura globale del consumismo, che è stata così devastante per il nostro pianeta, proviene da una forza emozionale che si annida nel cuore umano, la forza dell’avidità. In questo e altri modi il comportamento e i sentimenti umani stanno provocando la distruzione su vasta scala del nostro ambiente fisico. Quindi i nostri sforzi per proteggere l’ambiente sono più efficaci cambiando i nostri comportamenti.
Il declino del comportamento morale, descritto nel passo tradotto qui sopra, sorge dalla mente. Quindi, il passo canonico indica anche la necessità di cambiare gli atteggiamenti mentali. Sono qui di particolare rilevanza i tre inquinanti radice riconosciuti nel pensiero buddhista: avidità (o desiderio sensuale), rabbia (o malevolenza) e illusione. Sono queste le tre radici di ciò che è non salutare, vale a dire ciò che è dannoso per noi stessi e per gli altri. La loro relazione con condotte prive di etica e non salutari emerge dal seguente passo, esistente in pāli e cinese:
Qual è l’origine delle condotte non salutari? Anche la loro origine è dichiarata: bisognerebbe rispondere che “l’origine è nella mente”. Quale mente? Perché la mente è multiforme, variegata e sempre diversa. La mente con avidità, rabbia e illusione; da qui hanno origine le condotte non salutari. (MN 78: akusalā sīlā kiṃsamuṭṭhānā? samuṭṭhānam pi nesaṃ vuttaṃ: cittasamuṭṭhānā ti ’ssa vacanīyaṃ. katamaṃ cittaṃ? cittam pi hi bahu anekavidhaṃ nānappakārakaṃ sacittaṃ sarāgaṃ sadosaṃ samohaṃ, itosamuṭṭhānā akusalā sīlā).
Da dove sorgono le condotte non salutari? Io dichiaro da dove sorgono. Bisogna sapere che sorgono dalla mente. Quale tipo di mente? Se la mente è con desiderio sensuale, con malevolenza o con illusione, bisogna sapere che le condotte non salutari sorgono da questo tipo di mente. (MĀ 179: 不善戒從何而生? 我說彼所從生, 當 知從心生. 云何為心? 若心有欲, 有恚, 有癡, 當知不善戒從是心生).
Adottando la prospettiva fornita da questi due passaggi, l’attuale crisi climatica potrebbe essere inquadrata prendendo in considerazione i tre inquinanti radice. Sono queste le condizioni per una condotta non salutare e, a lungo termine, del deterioramento dell’ambiente come descritto dal passo tradotto precedentemente.
Vedere la sfida ecologica nei termini degli stati mentali che ne sono responsabili, aiuta a mettere a fuoco le questioni principali e a evitare il generarsi di animosità personali verso chi è in una posizione di leadership a livello politico ed economico. Serve anche a ricordare che questi stati sono comuni tra gli esseri umani, cosa che può creare un senso di comunanza e quindi proprio il tipo di attitudine mentale di cui c’è bisogno per contrastare la crisi.
Presenza mentale e stati della mente
Nel Satipaṭṭhāna‐sutta e nei suoi due paralleli cinesi, gli Āgama, i tre inquinanti radice sono oggetto per la contemplazione della mente, il terzo fondamento della presenza mentale (satipaṭṭhāna/smṛtyupasthāna) (Anālayo 2013). In tutte e tre le versioni l’obiettivo è di riconoscere quando avidità, rabbia e illusione sono presenti e anche quando non lo sono.
Solo quando la mente è, almeno temporaneamente, libera da queste condizioni mentali nocive, il suo potenziale di comprensione e la sua possibilità di rispondere adeguatamente ai problemi sono pienamente utilizzabili. Quindi, sia nella meditazione formale che agendo in risposta alla crisi ecologica, rimane decisiva un’attenta osservazione della mente per identificare il potenziale impatto di ciascuno di questi inquinanti. Questa osservazione, o ispezione, degli stati della mente, sia propri che degli altri, trova una similitudine nell’atto di guardarsi in una ciotola d’acqua per vedervi il riflesso del proprio viso. Questa similitudine, trovata in un discorso in pāli e nei due paralleli esistenti in sanscrito e cinese, viene così esposta:
Grande re, è come una donna o un uomo giovani, amanti degli ornamenti, che dovessero esaminare il riflesso del proprio volto in uno specchio chiaro e lucido oppure in una ciotola d’acqua chiara. Avendo una macchia, saprebbero di essere “con una macchia” ed essendo senza, saprebbero di essere “senza macchia”. (DN 2: seyyathāpi, mahārāja, itthī vā puriso vā daharo vā yuvā maṇḍanajātiko ādāse vā parisuddhe pariyodāte acche vā udakapatte sakaṃ mukhanimittaṃ paccavekkhamāno sakaṇikaṃ vā sakaṇikan ti jāneyya, akaṇikaṃ vā akaṇikan ti jāneyya).
E’ come una persona con una buona vista che avendo preso uno specchio rotondo molto limpido vi stesse esaminando il proprio volto. (Gnoli 1978, p. 248: tadyathā cakṣumān puruṣaḥ supariśuddham ādarśamaṇḍalaṃ gṛhītvā saṃmukhanimittaṃ evā pratyavekṣate).
E’ come una persona che usando dell’acqua limpida per guardarsi, scoprirebbe con certezza cosa è attraente e cosa repellente. (DĀ 27: 譬如有人以清水自照,好惡必察; il testo è stato integrato con abbreviazioni da DĀ 20 e DĀ 27. L’intera sezione in cui è presente questa similitudine non è rintracciabile in un altro parallelo, EĀ 43.7, tuttavia un altro parallelo, T 22, presenta invece una similitudine diversa che descrive qualcuno in cima a un alto palazzo che guarda la gente più sotto).
Come tenendo uno specchio ci si può osservare il viso, quando la presenza mentale è stabilizzata, è possibile osservare le condizioni della mente e riconoscere se uno dei tre inquinanti radice è presente oppure no. Questa possibilità di rispecchiamento della pratica di presenza mentale è decisiva, fornisce le condizioni indispensabili per poter fare qualcosa quando sono presenti avidità, rabbia o illusione. Fintanto che la loro presenza rimane inosservata, ben poco si può fare per liberarsene. Si è alla loro mercé, nel senso che si agisce, o reagisce, secondo l’influenza distorta di questi inquinanti, invece di rispondere alle reali esigenze della situazione corrente.
Nel Satipaṭṭhāna‐sutta e nei suoi due paralleli, gli Āgama cinesi, la contemplazione della mente comincia dirigendo la presenza mentale verso la propria condizione mentale per poi rivolgersi a quella degli altri. In linea con questa procedura, l’addestramento alla presenza mentale potrebbe iniziare distinguendo la presenza o l’assenza dei tre inquinanti radice nella propria mente e questo sarebbe l’addestramento fondamentale per distinguerne la presenza negli altri. Questo addestramento di base può essere messo chiaramente in relazione con la crisi attuale nel senso che le sfide che essa pone possono portare a tre reazioni che non sono d’aiuto: negazione, rabbia o rassegnazione, reazioni che possono essere correlate ai tre inquinanti radice, avidità, rabbia e illusione.
Negazione
Nell’affrontare le informazioni sulla distruzione ecologica e il cambiamento climatico con le loro potenziali ripercussioni, per la mente non addestrata sfuggire o rimuovere è una reazione naturale per continuare a godere dei piaceri di questo mondo senza doversi preoccupare troppo delle conseguenze. In questo senso la negazione, che può essere considerata un’espressione dell’inquinante dell’avidità, previene una reazione appropriata a quello che sta avvenendo. Le forze dell’avidità sono abbastanza forti da aver reso la negazione una strategia politica coltivata intenzionalmente da alcune importanti cariche politiche e da dirigenti di alto livello di compagnie che verrebbero influenzate negativamente da azioni prese per contrastare questa crisi. Una modalità comune a questo tipo di negazione è quella di fingere che le informazioni che abbiamo non siano sufficientemente assodate da essere prese seriamente.
Eppure i regolari rapporti di comitati internazionali di scienziati che sintetizzano il nostro attuale livello di conoscenza abbondano. Non vi può essere dubbio che la situazione è grave e richiede azioni rapide. Di fatto, in linea di principio è sufficiente sapere che una minaccia è probabile; non vi è bisogno di averne l’assoluta certezza. È così che in parte funziona la percezione umana, comporta una ‘predizione percettiva’ (Anālayo 2019). Nel vedersi di fronte all’improvviso un animale pericoloso si reagisce all’istante, non si può attendere di aver raccolto tutte le possibili informazioni sull’animale e di essere assolutamente certi che sia davvero intenzionato ad attaccare, visto che allora potrebbe essere troppo tardi. Similmente di fronte alle possibili conseguenze della crisi attuale, è il momento di agire, prima che sia troppo tardi.
Tuttavia la tendenza a volersene dimenticare può esercitare una forte influenza che viene raramente notata, a meno che la presenza mentale non sia consolidata. Da questo punto di vista la crisi globale può diventare un’opportunità per un regolare esame consapevole della mente volto a individuare le potenziali influenze dell’inquinante dell’avidità, per quanto sottilmente si possano manifestare nel favorire la negazione.
Rabbia
Un altro tipo di reazione alla crisi è la rabbia. Come già affermato precedentemente, alcune importanti cariche politiche e dirigenti di alto livello stanno impegnandosi attivamente per prevenire il concretizzarsi di appropriati cambiamenti. Eppure odiarli non è una soluzione. Per un semplice motivo: quasi tutti gli esseri umani contribuiscono in qualche grado al problema. Chi non ha mai guidato un’automobile, preso un volo, mangiato cibo importato dall’estero, indossato abiti confezionati in qualche distante paese, ecc., scagli la prima pietra.
Oltretutto, perlomeno dalla prospettiva del buddhismo antico, anche la rabbia giusta è un inquinante della mente. Vi è sicuramente posto per azioni severe ed energiche, ma sarebbe meglio venissero dettate da equilibrio interiore che da avversione. L’equilibrio interiore è fondamentale per realizzare qualsiasi possibile azione con il massimo beneficio. Dal punto di vista della pratica di presenza mentale, farsi prendere dalla rabbia equivale e soccombere a uno degli inquinanti radice, e quindi a ciò che ha contribuito a questa crisi e la mantiene in essere. La rabbia è un problema e non una soluzione. Una soluzione si può trovare solo quando la mente non è offuscata dagli inquinanti e quindi è in grado di sapere e vedere le cose con accuratezza.
Il Satipaṭṭhāna‐sutta e i suoi due paralleli, gli Āgama cinesi, inseriscono la rabbia come uno stato della mente non solo nel terzo fondamento della presenza mentale, ma anche nel secondo, nella serie dei cinque ‘ostacoli’, così chiamati perché ostacolano il corretto funzionamento della mente. Una serie di similitudini descrivono gli effetti di ciascuno di questi cinque ostacoli sulla mente. Esistenti nei discorsi in pāli e in un parallelo in sanscrito, queste similitudini portano a esempio una ciotola d’acqua usata per guardare il riflesso della propria mente. Essere arrabbiati viene paragonato all’acqua scaldata tanto da bollire:
È proprio come una ciotola d’acqua scaldata dal fuoco che gorgoglia e bolle. Se un uomo con una buona vista dovesse esaminare in essa il riflesso del proprio volto, non lo vedrebbe com’è realmente.
(SN 46.55: seyyathāpi, bhikkhave, udapatto agginā santatto ukkaṭṭhito usmudakajāto, tattha cakkhumā puriso sakaṃ mukhanimittaṃ paccavekkhamāno yathābhūtaṃ na jāneyya na passeyya).
È come una ciotola d’acqua scaldata dal fuoco, scaldata tanto che gorgoglia e bolle. Se un uomo con una buona vista dovesse esaminare in essa il riflesso del proprio volto, non lo vedrebbe [bene]. (Tripāṭhī 1995, p. 129: (tadyathā udakapātri) agninā taptā saṃtaptā kvathitā utsadakajātā syāt, tatra cakṣuṣmān puruṣaḥ svakaṃ mukhanimittaṃ pratyavekṣamāṇo na paśyet).
La similitudine utilizzata qui è correlata a quella tradotta precedentemente che paragona la contemplazione della mente all’osservarsi in una ciotola d’acqua o uno specchio. Il presente esempio la integra indicando in che modo una condizione della mente piena di rabbia può essere riconosciuta: ci si sente surriscaldati e pronti a scoppiare.
L’impossibilità di vedere il proprio viso quando l’acqua bolle illustra come la mente nella morsa della rabbia sia impossibilitata a vedere correttamente cosa è utile per il proprio beneficio e quello degli altri. La forza della rabbia distorce la valutazione percettiva della situazione e non consente un discernimento corretto ed equilibrato. Una tale condizione della mente deve essere riconosciuta con presenza mentale; è necessario astenersi dall’intraprendere un’azione fintanto che la mente non si è calmata, solo allora diventa possibile vedere le cose nella giusta prospettiva. In breve, l’attuale crisi può essere gestita meglio con una mente che non bolle di rabbia.
Rassegnazione
La terza reazione alla crisi che verrà discussa qui è la rassegnazione che può essere collegata all’inquinante dell’illusione. Si manifesta con la sensazione di essere sopraffatto e impotente. Cercare di mettere in atto qualche cambiamento come singolo individuo sembra senza speranza. A che serve provare? Eppure la società è fatta di individui e non esiste senza di loro. La questione non è se un singolo individuo può mettere in atto tutti i cambiamenti da solo, ma se ogni singolo individuo può contribuire al cambiamento richiesto. Ed è proprio questo il caso. Il passo intrapreso dal parlamento del Regno Unito ne è la prova, giunge in risposta alle pressioni di attivisti ecologisti e quindi ad atti intrapresi da individui.
Per contrastare l’impatto del tipo di illusione che porta alla rassegnazione può essere utile affrontare la situazione prendendo come punto di vista l’idea di condizionalità del buddhismo antico. In breve questo insegnamento suggerisce che qualsiasi cosa di cui si fa esperienza, fisica o mentale, è il prodotto di varie cause e condizioni. Questa visione di causalità può essere impiegata per contrastare la convinzione, cosciente o meno, della mono‐causalità, ritenere cioè che una causa sia l’unica responsabile di una particolare situazione o problema. Tale convinzione può facilmente portare alla ricerca di una singola causa che serva da capro espiatorio per i propri sentimenti di negatività. Può anche portare a una sopravvalutazione della propria responsabilità personale e di conseguenza a cadere preda di una sensazione di impotenza in relazione all’ordine di grandezza del problema. Vedere invece se stessi e gli altri come co‐partecipanti in un’ampia rete di condizioni può aiutare a controbilanciare queste tendenze.
Da questo punto di vista anche piccoli passi intrapresi nella vita quotidiana sono significativi. Lo sono non perché da soli cambieranno il mondo intero, ma perché contribuiscono a una rete di cause e condizioni che possono cambiare il mondo. Privati della pressione di dover ottenere risultati immediati e tangibili, questi piccoli passi possono diventare una materializzazione della pratica di presenza mentale. Che sia vivere più semplicemente, passare a una dieta vegetariana o vegana, riciclare o evitare viaggi non necessari in auto o in aereo, queste azioni diventano significative non perché il mondo cambierebbe se un individuo agisce in questo modo, ma perché rappresentano la consapevolezza della crisi globale e la esprimono a livello individuale come una forma di allenamento alla presenza mentale e a una responsabilità etica.
Naturalmente più sono coloro che si comportano in questo modo, maggiori saranno gli effetti. Questo si lega con la dimensione interna ed esterna della presenza mentale, dove l’interno getta le basi per l’esterno. È precisamente rappresentando quello che deve essere fatto a livello personale che il mondo esterno può essere positivamente influenzato. In questo modo la presenza mentale può diventare un modo per proteggere sia se stessi che gli altri, un argomento che verrà ripreso più oltre in una similitudine che descrive la cooperazione tra due acrobati.
Proprio come la presenza mentale permette di stare con il dolore fisico senza sfuggire o resistere (Anālayo 2016), essa può alleviare il dolore mentale dovuto all’orrore di ciò che gli esseri umani stanno facendo a loro stessi. Allenandosi a fronteggiare la crisi con equilibrio consapevole, si è in grado di incarnare la presenza mentale in modo autentico e di condividere questo atteggiamento con altri, motivandoli a fare lo stesso. Con quest’attitudine ogni attivismo ecologico per affrontare la crisi, che può manifestarsi in diversi modi (Cassegard at al. 2017), ha il maggiore potenziale di riuscita.
Compassione
Anche il Karmapa (2013, p. 92) ha affermato che “l’unico fattore importante che ci spingerà a proteggere il mondo è la compassione”. Sicuramente la compassione è la qualità necessaria per ispirare l’attitudine con cui affrontare l’attuale crisi. Nel pensiero del buddhismo antico una nota dimensione della compassione è il desiderio che non vi sia alcun danno (Anālayo 2015). Innanzitutto questo implica l’assenza di crudeltà nella propria mente e l’evitare di fare qualsiasi cosa possa nuocere ad altri, ma comprende ugualmente il desiderio che gli altri siano esenti da qualsiasi danno, anche se non inflitto da noi.
L’attitudine rilevante in questo contesto può essere ben rappresentata con un passo, trovato in un discorso in pāli e in un parallelo esistente in cinese, che descrive come evitare il risentimento verso qualcuno che si comporta in modo poco salutare. Il passo concorda con l’osservazione più sopra che, dalla prospettiva del buddhismo antico, la rabbia non è una risposta appropriata. Questo regge anche quando un altro si comporta in modi totalmente irresponsabili e riprovevoli.
I due paralleli inizialmente raccomandano di evitare il risentimento verso qualcuno che si comporta in modo non salutare e negativo cercando di trovare qualcosa di positivo in questa persona e prestando attenzione a quest’aspetto. Tuttavia, se la persona è completamente negativa e non vi si può trovare davvero niente di positivo, egli, o ella, diventa un’eccellente opportunità per la coltivazione della compassione. Questa è la risposta appropriata in questo contesto.
Oltre a sottolineare che la condotta non salutare e negativa di altri non è una scusa per arrabbiarsi, la descrizione dell’attitudine verso questa persona fornisce informazioni utili sulla natura della compassione. Le due versioni illustrano il sorgere della compassione nel seguente modo:
Amici, è come una persona che si sente male viaggiando lungo una strada, è afflitta e gravemente malata. L’ultimo villaggio è lontano alle sue spalle e il prossimo molto più avanti. Non può avere cibo adatto, medicine adatte, cure adatte e qualcuno a guidarlo fino a un villaggio. Un’altra persona che viaggia lungo la strada lo [o la] vede e in lui [o lei] sorge la compassione, sorge la simpatia e sorge l’empatia per questa persona [e pensa]: “Possa questa persona avere cibo adatto, medicine adatte, cure adatte e trovare qualcuno che lo guidi nei pressi di un villaggio! Perché? Possa questa persona sfuggire la sventura e non crollare qui!” (AN 5.162: seyyathāpi, āvuso, puriso ābādhiko dukkhito bāḷhagilāno addhānamaggappaṭipanno. tassa purato pi ’ssa dūre gāmo pacchato pi ’ssa dūre gāmo. so na labheyya sappāyāni bhojanāni, na labheyya sappāyāni bhesajjāni, na labheyya paṭirūpaṃ upaṭṭhākaṃ, na labheyya gāmantanāyakaṃ. tam enaṃ aññataro puriso passeyya addhānamaggappaṭipanno. so tasmiṃ purise kāruññaṃ yeva upaṭṭhāpeyya, anuddayaṃ yeva upaṭṭhāpeyya, anukampaṃ yeva upaṭṭhāpeyya: aho vatāyaṃ puriso labheyya sappāyāni bhojanāni, labheyya sappāyāni bhesajjāni, labheyya paṭi rūpaṃ upaṭ ṭhākaṃ, labheyya gāmantanāyakaṃ. taṃ kissa hetu? māyaṃ puriso idh’eva anayavyasanaṃ āpajjeyya).
È come qualcuno che si trova in viaggio per una lunga strada. Sentitosi male a metà strada soffre molto ed è esausto. È solo e senza alcuna compagnia. Il villaggio alle sue spalle è lontano e non ha ancora raggiunto il villaggio seguente. Supponiamo arrivi una persona e, stando nei pressi, veda che questo viaggiatore, in viaggio per una lunga strada, si è sentito male a metà strada, soffre molto ed è esausto. È solo e senza alcuna compagnia. Il villaggio alle sue spalle è lontano e non ha ancora raggiunto il villaggio seguente. [La seconda persona pensa:] “Se vi fosse un accompagnatore, se si allontanasse dalle terre deserte e raggiungesse un villaggio o una città e gli venissero date buone medicine e venisse nutrito con buon cibo nutriente, se ci si prendesse cura di lui, allora il malessere di questa persona sicuramente passerebbe”. Ecco, questa persona ha la mente piena di pensieri compassionevoli, empatici e gentili verso la persona malata. (MĀ 25: 猶如有人遠涉長路, 中道得病, 極困 委頓, 獨無伴侶, 後村轉遠, 而前村未至. 若有 人來住一面, 見此行人遠涉長路, 中道得病, 極困委頓, 獨無伴侶, 後村轉遠, 而前村未至, 彼若得侍人, 從逈野中, 將至村邑, 與妙湯藥, 餔養美食, 好瞻視者, 如是此人病必得差. 謂 彼人於此病人, 極有哀愍慈念之心).
Entrambe le versioni non vanno oltre la descrizione dell’attitudine mentale sorta alla vista del viaggiatore malato. Ciò non è sorprendente visto che l’episodio intende illustrare l’attitudine da impiegare verso qualcuno che è molto negativo e quindi contrastare ogni potenziale risentimento; non intende descrivere delle azioni da intraprendere. Se la storia fosse stata impiegata in un diverso contesto, probabilmente sarebbe continuata descrivendo la persona compassionevole fare tutto il possibile affinché il viaggiatore malato ricevesse l’assistenza necessaria. In altre parole, il fatto che le due versioni non parlino di una vera e propria assistenza verso la persona malata è semplicemente dovuto al proposito per il quale la descrizione viene impiegata.
Dal punto di vista della stretta relazione tra la compassione e il desiderio che non vi sia alcun danno, è significativo che il danno in questo caso non sia stato inflitto al viaggiatore malato da qualcun altro, è invece solo il frutto di circostanze sfortunate.
Un altro punto interessante nella descrizione più sopra è che la compassione trova espressione nel desiderio del testimone che la persona malata trovi in qualche modo sollievo dalla sventura. In altre parole, sebbene la visione della sofferenza del viaggiatore costituisce il punto iniziale, la compassione vera e propria ha come oggetto principale l’idea che la persona malata venga aiutata e trovi sollievo. Il compito non è di continuare a soffermarsi sull’effettiva sofferenza immaginando in dettaglio come ci si possa sentire essendo malati e deboli in quel modo, la coltivazione della compassione prende come oggetto il potenziale sollievo dal dolore.
Un’utile distinzione in questo senso si può trovare in un testo più tardo, un manuale di pratica della tradizione Theravāda chiamato il Sentiero della purificazione, il Visuddhimagga. Il passo in questione presenta un “nemico prossimo” della compassione (Vism 319), una caratteristica che, nonostante qualche superficiale somiglianza, a una analisi più attenta risulta essere dannosa per una genuina compassione: la tristezza o dolore (domanassa). Essa deve essere evitata.
Questa importante distinzione non è sempre evidente nelle tradizioni buddhiste più tarde, in alcune di queste infatti si è sviluppata la tendenza a concepire la compassione come modo per prendere su di sé il dolore di altri (Anālayo 2017). Sebbene questo sia certamente un approccio significativo all’interno della sua impostazione dottrinale e storica, tali idee si differenziano dalla concezione di compassione nel buddhismo antico.
Nell’applicare la compassione alla crisi attuale, l’intento compassionevole di evitare e minimizzare il danno non deve necessariamente risultare in tristezza e dolore. Essi possono sorgere facilmente visto l’ordine di grandezza del problema, l’inerzia della maggior parte della popolazione umana e l’esistenza di forze antagoniste in posizione di potere, ma è qui che la presenza mentale può essere di fondamentale aiuto, osservando e regolando in modo da mantenere l’equilibrio interiore.
Rimanere liberi da tristezza e dolore in effetti è un elemento chiave nella coltivazione dei fondamenti della presenza mentale (satipaṭṭhāna/smṛtyupasthāna). In relazione a ciascuno dei quattro ambiti di tale pratica, che comprende corpo, tono delle sensazioni, stati mentali e dharma, dovrebbero essere coltivate le seguenti qualità:
Essendo diligenti, chiaramente coscienti, rimuovendo avidi desideri e tristezza nel mondo.
(SN 52.6: ātāpī sampajāno satimā, vineyya loke abhijjhādomanassaṃ).
Con sforzo diligente, retta presenza mentale e retta conoscenza, superando avidità e tristezza nel mondo.
(SĀ 537: 精勤方便, 正念, 正知, 調伏世間貪憂).
Quindi, assicurarsi di rimanere liberi da dolore o tristezza è un aspetto chiave della pratica di presenza mentale, ciò dipende dalle potenzialità della presenza mentale di stare con ciò che è, riconoscendolo senza distogliere lo sguardo né reagire impulsivamente.
L’ottuplice sentiero
Perché vi sia equilibrio interiore nell’affrontare la crisi attuale è necessario vi sia un’abile interrelazione tra compassione e presenza mentale. Per raggiungere quest’obiettivo è utile avvalersi della prospettiva del nobile ottuplice sentiero, un insegnamento fondamentale nel buddhismo antico. L’ottuplice sentiero presenta in sintesi le diverse dimensioni o attività la cui coltivazione collaborativa conduce al risveglio. Secondo un discorso esistente in pāli, cinese e tibetano, gli otto fattori di questo sentiero si sviluppano l’uno dall’altro nel seguente modo:
[...] in qualcuno con retta visione, viene in essere la retta intenzione; in qualcuno con retta intenzione, viene in essere la retta parola; in qualcuno con retta parola, vienein essere la retta azione; in qualcuno con retta azione, vengono in essere i retti mezzi di sussistenza; in qualcuno con retti mezzi di sussistenza, viene in essere il retto sforzo; in qualcuno con retto sforzo, viene in essere la retta presenza mentale; in qualcuno con retta presenza mentale, viene in essere la retta concentrazione.
(MN 117: sammādiṭṭhissa ... sammāsaṅkappo pahoti, sammāsaṅkappassa sammāvācā pahoti, sammāvācassa sammākammanto pahoti, sammākammantassa sammā‐ājīvo pahoti, sammāājīvassa sammāvāyāmo pahoti, sammāvāyāmassa sammāsati pahoti, sammāsatissa sammāsamādhi pahoti).
Retta visione dà luogo a retta intenzione, retta intenzione dà luogo a retta parola, retta parola dà luogo a retta azione, retta azione dà luogo a retti mezzi di sussistenza, retti mezzi di sussistenza danno luogo a retto sforzo, retto sforzo dà luogo a retta presenza mentale e retta presenza mentale dà luogo a retta concentrazione.
(MĀ 189: 正見生正志, 正志生正語, 正語生 正業, 正業生正命, 正命生正方便, 正方便生 正念, 正念生正定).
Dalla retta visione sorgono retta intenzione, retta parola, retta azione, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione.
(Up 6080: de la yang dag pa’i lta ba las yan dag pa’I rtog pa skye bar ’gyur zhing, yang dag pa’i ngag dang, yang dag pa’i las kyi mtha’ dang, yang dag pa’i ’tsho ba dang, yang dag pa’i rtsol ba dang, yang dag pa’i dran pa dang, yang dag pa’i ting nge ’dzin ’byung bar ’gyur ro).
In questo modo, con la guida e la giusta prospettiva offertale dalla retta visione, la retta intenzione, secondo fattore del sentiero, determina un orientamento verso una condotta eticamente corretta nell’ambito della parola, dell’azione e dei mezzi di sussistenza. Sulle basi così gettate, successivamente sorgono il retto sforzo volto a rimuovere gli inquinanti e a mantenere stati mentali favorevoli, la coltivazione della retta presenza mentale nella forma dei suoi quattro fondamenti e infine si guadagna la retta concentrazione, nel senso di padronanza di sé a livello mentale.
Mentre la presenza mentale trova una esplicita menzione in questa lista, il posto della compassione in questo schema non è immediatamente evidente.Tuttavia, uno sguardo più attento al secondo fattore del sentiero, la retta intenzione, rivela dove entra in gioco la compassione.
[...] l’intenzione alla rinuncia, l’intenzione alla non malevolenza e l’intenzione che non vi sia danno: questa è la retta intenzione.
(MN 117: nekkhammasaṅkappo, abyāpādasaṅkappo, avihiṃsāsaṅkappo, ayaṃ ... sammāsaṅkappo).
Pensieri di distacco, pensieri [volti alla] non malevolenza e pensieri [volti a] che non vi sia danno: questa si riconosce come retta intenzione.
(MĀ 189: 無欲念, 無恚念, 無害念, 是謂正志).
L’intenzione di libertà, l’intenzione di non essere avidi e l’intenzione che non vi sia danno: questa si riconosce come retta intenzione.
(Up 6080: thar pa’i rnam par rtog pa dang, brnab sems med pa’i rnam par rtog pa dang, rnam par mi ’tshe ba’i rnam par rtog pa ste, ’di ni yang dag pa’i rtog pa zhes bya’o).
La citazione dal tibetano riportata in ultimo, si differenzia dalla consueta esposizione dei primi due tipi di retta intenzione trovate nelle altre due versioni e solitamente nei discorsi più antichi. Eppure concorda con le versioni in pāli e in cinese sulla terza retta intenzione, che in tutte e tre le versioni è che non vi sia danno. Essa corrisponde alla compassione, che nei discorsi buddhisti antichi è esattamente il desiderio che non vi sia alcun danno.
Sulla base di questa comprensione, quindi, la compassione come dimensione della retta intenzione definisce il quadro per la coltivazione della retta presenza mentale nella forma dei suoi quattro fondamenti. Ciò implica che, dal punto di vista dell’ottuplice sentiero, dar vita ad almeno qualche grado di intenzione compassionevole fornisce una base per l’impegno nella coltivazione formale dei fondamenti della presenza mentale. La stessa cosa ha luogo per la gentilezza amorevole o benevolenza (mettā), che corrisponde a un altro aspetto della retta intenzione come solitamente descritta nei discorsi antichi. In altre parole, delle basi nella coltivazione di queste due dimore divine, gentilezza amorevole e compassione, possono servire da lavoro preparatorio per la pratica formale di presenza mentale.
Allo stesso tempo tuttavia, questo non significa che bisogna lasciare da parte la presenza mentale fin quando tale preparazione non sia completata. La relazione tra compassione e presenza mentale è più complessa. Questo diventa chiaro esaminando un’altra parte dello stesso discorso, che mostra come la retta presenza mentale a sua volta sia in relazione con la retta intenzione. Qui la presenza mentale è uno dei tre fattori del sentiero, gli altri due sono visione e sforzo, che assieme assicurano che l’intenzione sia del giusto tipo.
In questo contesto il compito della retta visione è di distinguere la retta intenzione da quella errata. Il retto sforzo rappresenta lo sforzo di abbandonare l’intenzione errata e di stabilire la retta intenzione. In questo modo le versioni parallele mostrano che la retta intenzione richiede la collaborazione di questi tre fattori del sentiero:
Quindi, questi tre stati seguono e ruotano intorno alla retta intenzione, cioè retta visione, retto sforzo e retta presenza mentale.
(MN 117: itiyime tayo dhammā sammāsaṅkappaṃ anuparidhāvanti anuparivattanti, seyyathīdaṃ sammādiṭṭhi, sammāvāyāmo, sammāsati).
Questi tre fattori accompagnano la retta intenzione, dalla visione allo sforzo [e presenza mentale]. (MĀ 189: 此三支隨正志, 從見方便).
Questi tre fattori del sentiero seguono la retta intenzione, vale a dire visione, sforzo e presenza mentale.
(Up 6080: lam gyi yan lag gsum po ’di dag ni yang dag pa’i rtog pa nyid kyi rjes su ’jug ste, ’di lta ste lta ba dang, rtsol ba dang, dran pa’o).
Quest’ultimo passo chiarisce che la presenza mentale è già richiesta quando si instaura la retta intenzione. In altre parole la compassione non viene invariabilmente prima perché collegata al secondo fattore del sentiero e la presenza mentale solo dopo di essa perché corrisponde al settimo fattore. La presenza mentale invece è richiesta fin dall’inizio visto che serve a monitorare il sorgere della retta intenzione e a fornire il riscontro necessario per l’attuazione del retto sforzo. Da questo punto di vista quindi la presenza mentale crea le fondamenta per la retta intenzione volta a che non vi sia danno, proprio come l’intenzione che non vi sia danno definisce il terreno corretto per la pratica formale della presenza mentale.
Applicato alla sfida posta dal dover affrontare il cambiamento climatico, questo significa che il compito della presenza mentale non è solo di fare attenzione ai tre inquinanti radice ma anche di accertarsi che l’intenzione rimanga del giusto tipo. In questo contesto la presenza mentale può controllare che la compassione non venga perduta né che sfumi nel suo nemico prossimo, la tristezza. Quando ciò che la situazione richiede non è più in piena vista, la presenza mentale lo nota, allerta del pericolo di scivolare in qualche forma di apatia e della necessità di una maggiore enfasi sulla compassione e sulla sincera preoccupazione che non vi sia danno. Quando la misura della sfida conduce alla tristezza, di nuovo, la presenza mentale lo nota e fornisce l’informazione che è necessario un cambiamento di rotta, che è necessaria maggiore enfasi sull’equilibrio mentale, sul rimanere consapevoli ed equanimi.
Equilibrio
L’importanza dell’equilibrio mentale e la sua relazione con la presenza mentale e la compassione è illustrata in una similitudine dove due acrobati stanno per eseguire un numero assieme. Un’acrobata dice all’altro che per eseguirlo bene devono essere sicuri di prendersi cura l’uno dell’altro. L’altro risponde che così non funziona perché prima di tutto bisogna prendersi cura di se stessi, così si potrà proteggere sia se stessi che l’altro e, allo stesso tempo, eseguire il numero al meglio. Le tre versioni esistenti di questo discorso riferiscono del Buddha che illustra le implicazioni di questa similitudine nel seguente modo:
Monaci [e monache], proteggendo se stesso uno protegge l’altro; proteggendo l’altro uno protegge se stesso. E come monaci [e monache] proteggendo se stesso si protegge l’altro? Praticando, coltivando, e facendo attenzione [alla mente]. Monaci [e monache] così proteggendo se stesso si protegge l’altro. E come monaci [e monache] proteggendo l’altro si protegge se stesso? Con la pazienza, il non nuocere, la gentilezza amorevole e l’immedesimazione. Monaci [e monache], così proteggendo l’altro si protegge se stesso. Monaci [e monache], [pensando:] “proteggerò me stesso” dovrebbe essere praticato il fondamento della presenza mentale; [pensando:] “proteggerò gli altri” dovrebbe essere praticato il fondamento della presenza mentale.
(SN 47.19: attānaṃ, bhikkhave, rakkhanto paraṃ rakkhati, paraṃ rakkhanto attānaṃ rakkhati. kathañ ca, bhikkhave, attānaṃ rakkhanto paraṃ rakkhati? āsevanāya, bhāvanāya, bahulīkammena; evaṃ kho, bhikkhave, attānaṃ rakkhanto paraṃ rakkhati. kathañ ca, bhikkhave, paraṃ rakkhanto attānaṃ rakkhati? khantiyā, avihiṃsāya, mettatāya, anudayatāya; evaṃ kho, bhikkhave, paraṃ rakkhanto attānaṃ rakkhati. attānaṃ, bhikkhave, rakkhissāmī ti satipaṭṭhānaṃ sevitabbaṃ; paraṃ rakkhissāmī ti satipaṭṭhānaṃ sevitabbaṃ).
Avendo protetto se stesso, uno immediatamente protegge l’altro; proteggendo se stesso e anche l’altro questa è davvero protezione. [Come proteggendo se stesso si protegge l’altro]? Prendendo familiarità con la propria mente, sviluppandola, proteggendola di conseguenza e raggiungendo la realizzazione; questo è “proteggere se stessi protegge l’altro”. Come proteggendo l’altro si protegge se stesso? Con il dono del coraggio, il dono del non‐violare, il dono del non nuocere, avendo una mente [volta alla] gentilezza amorevole e all’empatia per l’altro; questo è “proteggere l’altro protegge se stessi”. Per questa ragione monaci [e monache] dovreste addestrarvi così: “Proteggendo me stesso coltiverò i quattro fondamenti della presenza mentale, anche proteggendo l’altro coltiverò i quattro fondamenti della presenza mentale”.
(SĀ 619: 已自護時即是護他, 他自護時亦是 護已. 心自親近, 修習, 隨護, 作證, 是名自護護 他. 云何護他自護? 不恐怖他, 不違他, 不害他, 慈心哀彼, 是名護他自護. 是故, 比丘, 當如是 學: 自護者修四念處, 護他者亦修四念處).
Se uno è capace di proteggere se stesso, è capace di proteggere l’altro. Se uno desidera proteggere l’altro, è a propria volta capace di proteggere se stesso. Come proteggere se stesso permette di proteggere l’altro? Attuando uno sforzo diligente nella coltivazione reiterata, essendo di conseguenza protetto nell’incontro con ciò che la mente rende presente, e quindi proteggendo in questo modo se stesso, uno è anche capace di proteggere l’altro. Come proteggere l’altro permette di proteggere se stesso? Non essendo infastidito dall’altro, non arrabbiandosi con l’altro e non nuocendogli in alcun modo, avendo gentilezza amorevole, compassione, pietà, ed empatia; quindi, in questo modo, essendo capaci di proteggere l’altro uno è capace di proteggere se stesso. Per questa ragione monaci [e monache] dovreste allenarvi in questo modo: se qualche volta volete proteggere voi stessi, allora dovreste coltivare i quattro fondamenti della presenza mentale; se desiderate proteggere [l’altro], se dite [desiderate] di proteggere voi stessi e l’altro, dovreste lo stesso coltivare i quattro fondamenti della presenza mentale.
(T 1448: 若能守護自身, 即能守護於他. 若欲 守護於他, 即便 自守. 如何自守能守護他? 由勤策勵數數修習, 由隨守護觸境現前, 所以 如是自守護時亦能護他. 如何護他 自護? 由 不惱他, 亦不瞋他, 并不損害, 慈, 悲, 憐, 愍, 所 以如是能守護他 自護. 是故, 汝等苾芻, 應 如是學: 若欲自守護時, 應當修習四念住處; 若欲守護, 若言自護及守護他, 亦應修習四念 住處; le correzioni implicano le cancellazioni della negazione 不, che regolarmente tende a essere persa oppure aggiunta quando i testi indiani vengono tradotti in cinese).
Questa spiegazione descrive in dettaglio le implicazioni del tema dei due acrobati che, per poter eseguire il loro numero adeguatamente, devono prima essere sicuri di essere centrati e avendo così protetto il proprio stesso equilibrio, saranno in grado di proteggersi l’un l’altro. La chiave è ovunque la presenza mentale, che stabilisce le fondamenta per essere in grado di proteggere se stessi attraverso la coltivazione della mente, e proteggere gli altri essendo compassionevoli verso di loro, evitando di nuocere in alcun modo.
L’auto‐protezione tramite la presenza mentale è ciò che permette di riconoscere se sono presenti avidità, odio e illusione. Senza tale riconoscimento i tre inquinanti radice avrebbero piena libertà di creare confusione nella mente nascondendosi sotto una tra le tante pretese e scuse utili a mascherare la loro vera natura. La presenza mentale permette di vedere attraverso questi mascheramenti. In questo modo una presenza mentale consolidata può contrastare l’innata riluttanza ad ammettere a se stessi che si è avidi, arrabbiati o confusi. Nella stessa misura in cui la presenza mentale diviene così una costante autoprotezione, essa protegge anche gli altri dalle ripercussioni di qualsiasi azione intrapresa sotto l’influenza dei tre inquinanti radice. Come spiega Ñāṇaponika (1990, p. 5):
L’auto‐protezione proteggerà gli altri, individui e società, dalle nostre incontrollate passioni e dagli impulsi egoistici ... saranno al sicuro dalla nostra sconsiderata avidità di possesso e potere, dalla nostra incontrollata libido e sensualità, dalla nostra invidia e gelosia; al sicuro dalle conseguenze distruttive del nostro odio e ostilità, che possono essere distruttivi o persino omicidi; al sicuro dalle esplosioni della nostra rabbia e dalla conseguente atmosfera di antagonismo e conflitto che può rendere loro la vita insopportabile.
Sulla base di quest’auto‐protezione, la compassione si inserisce in modo naturale. La sua coltivazione, che ha luogo nella propria mente, avrà effetti benefici immediati e quindi contribuirà a proteggere se stessi. Una mente che dimora nella compassione è lontana dalle intenzioni di nuocere, dall’irritarsi e infastidirsi, per cui gli altri sono protetti.
Dal punto di vista dell’interrelazione tra compassione e presenza mentale è degno di nota che il lavoro preparatorio sia compito della presenza mentale. Le tre versioni nella conclusione concordano nel raccomandare la coltivazione formale della presenza mentale, come satipaṭṭhāna/smṛtyupasthāna, per proteggere se stessi e gli altri. Ciò chiaramente serve come base fondamentale e la ragione è che bisogna prima di tutto prendersi cura del proprio ambiente mentale. Nelle parole di Ñāṇaponika (1990, p. 8):
Se lasciamo irrisolte le reali e potenziali fonti del male sociale dentro di noi, la nostra attività sociale sarà futile o sensibilmente incompleta. Quindi, se siamo mossi da spirito di responsabilità sociale, non possiamo sottrarci al difficile compito di un autosviluppo morale e spirituale. Il pensiero dell’attività sociale non deve diventare una scusa o una fuga dal primo compito: mettere ordine innanzitutto nella propria casa.
Presenza mentale globale
I brani esaminati in questo articolo puntano il riflettore sulla presenza mentale come principale strumento per affrontare l’attuale crisi ecologica. La crisi stessa può essere vista come risultato dei tre inquinanti radice, in particolare della sfrenata avidità e dell’ingannevole tendenza a ignorarne le conseguenze. Anche se a prima vista la rabbia sembra meno evidente, con l’imminente deterioramento delle condizioni di vita, ci si può aspettare che divenga più rilevante. La coltivazione della presenza mentale rende più facile affrontare le disastrose conseguenze esterne dei tre inquinanti radice, senza soccombere a essi internamente. Tale coltivazione sta nell’intenzione a che non vi sia danno come espressione della compassione. Essa controlla e regola il contributo reso dalla compassione, assicurando che non si soccomba al suo nemico prossimo, la tristezza, né che si distolga l’attenzione perché non si è più in grado di sostenerla. Da questa prospettive, affrontare il cambiamento climatico diventa in tutto e per tutto una pratica di presenza mentale. Ma non solo, il suo obiettivo finale è precisamente un innalzamento della consapevolezza su scala globale.
Oggi come oggi è possibile sfruttare più facilmente il potenziale della presenza mentale riguardo a questo per via della sua diffusione mondiale, risultato dei suoi adattamenti in diverse aree della società contemporanea e della cultura moderna (Wilson 2014). È possibile seguire corsi di formazione sulla presenza mentale in tutto il mondo e questi sono accessibili a persone provenienti da ambienti molti diversi tra loro. Da questa prospettiva, ciò che è iniziato negli anni 70 nell’ospedale dell’università del Massachusetts nella forma di MindfulneesBased Stress Reduction potrebbe portare con sé un valore che va molto al di là della riduzione dello stress a livello individuale. Da questo punto di vista sembra appropriato concludere questo saggio con le riflessioni sulla presenza mentale e la crisi ecologica di KabatZinn (2019, p. 59):
Come faremo a sapere quando il mondo non potrà quasi più respirare e quindi sarà già troppo tardi per agire? Sarà quando non potremo più uscire dalle città e respirare l’aria? ... O sarà quando le temperature globali saliranno fino al punto di sciogliere le calotte polari e tutti i ghiacciai? ... Cosa ci vorrà per farci svegliare e spingerci a prendere una via diversa, più saggia e immaginativa? Per fronteggiare la malattia autoimmune di cui soffriamo come specie, della quale siamo allo stesso tempo la causa, dovremo, prima o poi, renderci conto della necessità di coltivare una consapevolezza attenta, con la sua capacità di fare chiarezza, su ciò che è più importante e più umano riguardo noi stessi, e di rimuovere il fitto velo di inconsapevolezza dai nostri sensi e processi di pensiero; la sua capacità di rinstaurare l’equilibrio in qualsiasi grado sia possibile.
Edizione originale in lingua inglese: A task for mindfulness, facing climate change. Mindfulness, 2019, 10.9: 1926–1935.
Edizione italiana © Āgama Research Group, 2019
traduzione a cura di Silvia Massara.