di Marco Passavanti
Mi capita spesso, nelle circostanze più disparate, di sentirmi rivolgere la fatidica domanda: “Ma tu che tipo di yoga pratichi?”. Rispondere a questa domanda, all’apparenza così semplice e banale, si rivela a volte un’impresa temeraria e ardita, impresa che spesso conduce me e i miei interlocutori in fittissimi gineprai ermeneutici (quanto mi piace usare ‘sto termine!) e in altrettanto fitte discussioni su cosa sia lo yoga, su quale sia la sua storia, su quanti e quali siano i tipi di yoga, eccetera. A chiusura della discussione (che il più delle volte è stata purtroppo un dialogo tra sordi) mi capita spessissimo di sentire questa frase: “Sì certo, esistono tanti tipi di yoga, ma in fondo lo yoga è uno!”.
L’avrò sentita ripetere in tutte le salse e da decine di persone, e per molto tempo ho ritenuto ingenuamente che fosse vera e inconfutabile. Se tanta gente ci crede, dovrà essere per forza giusta.
Col tempo, con lo studio, e grazie al confronto con studiosi e praticanti, sono arrivato a mettere radicalmente in discussione questa idea, approdando alla conclusione opposta: non esiste uno yoga, ma esistono tanti yoga, nati e sviluppati in contesti ed epoche storiche diverse, da gruppi sociali e religiosi diversi che perseguivano e perseguono finalità differenti. In altre parole, non esiste un’antica tradizione dello yoga che dai primordi è giunta pura e incontaminata fino a noi, magari trasmessa da maestro a discepolo in un lignaggio ininterrotto che ne ha preservato lo «spirito» e «l’essenza». Non esiste dunque una Tradizione dello yoga (quando c’è la T maiuscola ho sempre un leggero brivido…), semmai esistono tante tradizioni (al plurale e con la t minuscola). Ho notato che un discorso di questo tipo non piace affatto a molti cultori dello yoga (e a molti guru!) che spesso hanno reazioni stizzite, oppure rispondono appellandosi alla civiltà della valle dell’Indo e al protośiva itifallico, o all’autorità incontestabile di un guru o di un lignaggio.
Perché si hanno tanti problemi ad accettarlo? Perché tante resistenze a mettere in discussione la presunta unità fondamentale dello yoga? Dal mio punto di vista, lo yoga non ne viene affatto sminuito, anzi acquista nuove e diverse sfumature. Vista da questa prospettiva la storia dello yoga può essere interpretata come l’espressione del genio multiforme di una civiltà complessa ed estremamente sfaccettata come quella dell’India (e dei paesi influenzati in vario modo da essa: il Tibet, la Cina, l’Asia centrale, il Giappone, il Sud est asiatico, e oggi l’Occidente). Ciò che nel corso dei secoli è stato rubricato sotto il termine «yoga» è una straordinaria fioritura di pratiche, idee, credenze, simboli, testi e discorsi che difficilmente si presta a facili semplificazioni. Dice a questo proposito David Gordon White (2012: 2), uno dei maggiori specialisti della storia dello yoga:
Ciascun gruppo in ciascuna epoca ha creato la sua versione e la sua visione dello yoga. Una delle regioni per cui è stato possibile è il fatto che il suo campo semantico – ovvero la gamma dei significati del termine «yoga» – è così vasto, e il concetto di yoga così malleabile, che lo si è potuto trasformare in quasi qualunque tipo di pratica o processo.
Da questo punto di vista ha davvero senso richiamarsi a un presunto «yoga delle origini», all’unico «vero» yoga, o allo yoga «tradizionale»? Non è forse più utile tenere conto delle mille peculiarità dei singoli discorsi sullo yoga inquadrandoli nel loro contesto storico e culturale specifico? Sin dalle sue origini (quindi dai primi documenti che ne parlano, ovvero le Upaniṣad) lo yoga è sempre stato un insieme di diversi punti di vista, a volte discordanti e a volte sorprendentemente simili. Nel corso della sua lunga storia questa grande varietà non ha fatto che aumentare.
Lo yoga è un prodotto della storia, dunque non esiste uno yoga atemporale, perenne, eterno e svincolato dal divenire della società. L’approccio allo yoga che io preferisco è dunque uno che ne esalti la diversità rispetto all’unità: lo yoga si adatta al contesto, al mutare delle condizioni, ai bisogni e alle aspirazioni delle persone. Sfortunatamente questa visione fatica a creare consensi al di là del mondo accademico, nella più vasta «comunità globale» dello yoga. Ci sono però notevoli eccezioni (soprattutto in Inghilterra e in America) a testimonianza del fatto che chi pratica lo yoga oggi in Occidente sente la necessità di interrogarsi in modo rigoroso e scientifico sulla sua storia e di inquadrarlo all’interno di della sua cultura di origine, che ha alle spalle secoli di evoluzione.
Chi si accosta allo yoga oggi, in Occidente, ha di fronte a sé un campionario di pratiche, di tradizioni, di marchi registrati, di scuole, di maestri e di testi in cui spesso è difficile orientarsi: non penso che tra questi esista uno yoga «giusto», «vero», «tradizionale», ma che esistano differenti possibilità di esplorazione, da scegliere nella massima libertà e comprendendone chiaramente i metodi e le finalità. In questa grande diversità è legittimo, e benvenuto, anche il dissenso: personalmente sento che esistono modalità che si definiscono yoga con le quali mi trovo in disaccordo, e che mi impediscono di poter affermare che lo yoga è uno. Ma lo yoga è bello così: una giungla da esplorare, in cui si vivono avventure e si fanno scoperte preziose.